LA GIUSTIZIA PENALE IN UN VINCOLO CIECO. Il documento della Giunta della UCPI sulle linee programmatiche del neo costituendo Governo.

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Pubblichiamo di seguito integralmente – condividendone tutti i contenuti – il documento approvato dalla Giunta della UCPI lo scorso 18 maggio ed avente ad oggetto le linee programmatiche in materia di giustizia contenute nel c.d. “contratto” tra le forze politiche in trattativa per la formazione del nuovo governo.

Riteniamo sia assolutamente utile al fine di rendere contezza della crescente preoccupazione per l’atteggiamento assunto rispetto a problematiche così delicate da richiedere ben altri approcci.

«1. Ci è sembrato necessario ed utile, al fine di evitare di prendere posizione in maniera avventata su questioni di straordinaria rilevanza, e considerata l’aria di permanente propaganda elettorale che ha caratterizzato anche gli ultimi passaggi della gestione della crisi politica in corso, attendere di poter prendere cognizione di una qualche certezza in ordine ai contenuti definitivi del programma di politica giudiziaria elaborato dalle forze politiche candidate al governo del Paese.

La trasversalità della Associazione e la laicità della prospettiva che caratterizzano l’azione dei penalisti italiani imponevano ed impongono serietà, responsabilità e prudenza nell’affrontare temi di così alta rilevanza istituzionale.

Tuttavia, posti di fronte a quello che viene definito il programma/contratto “definitivo”, lo sconcerto che aveva caratterizzato la lettura delle prime bozze diffuse dai media, sulle quali avevamo ritenuto opportuno sospendere ogni giudizio, si è evidentemente trasformato in una grave preoccupazione per l’approccio metodologico, per il merito e per le intere prospettive di “visione” della Giustizia che caratterizzano quello che viene definito “Contratto per il Governo del Cambiamento”.

Tale valutazione comprende ovviamente (limitandosi a quelle) le parti programmatico/contrattuali dedicate alla “Giustizia rapida ed efficiente” (Area Magistratura e tribunali – Area penale, procedura penale e difesa sempre legittima – Certezza della pena – Reati ambientali e tutela degli animali – Contrasto alle mafie – Ordinamento penitenziario – Giustizia tributaria) nonchè alla “Immigrazione: rimpatri e stop al business”, ed infine alla “Lotta alla corruzione”.

L’approccio metodologico risponde con evidenza ad una logica puramente demagogica e di risposta alle spinte giustizialiste che sono state in questi ultimi anni oggetto di propaganda da parte delle forze populiste, le quali, anche a fronte di problemi reali, hanno formulato parole d’ordine e semplificazioni che si adattavano alle pulsioni più viscerali ed emotive indotte nella collettività.

La natura puramente ideologica e securitaria di tale approccio implica evidentemente una totale indifferenza a quelle che sono le acquisizioni di natura oggettiva, statistica e razionale pertinenti i singoli fenomeni, giungendo così a conclusioni totalmente arbitrarie del tutto fuorvianti ed a soluzioni pericolosamente ingenue. L’intera valutazione fenomenologica è legata a dati fondati sulla mera “percezione” piuttosto che su di una attenta lettura dei dati. Immaginare, così, che si debba “ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi”, senza specificare dove come e perché tali reati resterebbero “impuniti”, e per quale ragione ne sarebbe responsabile la legislazione penale, resta un mistero. Immaginare, sia pure implicitamente, un maggiore ricorso alla “carcerazione preventiva” significa dimenticare che la percentuale dei detenuti presenti nelle nostre carceri in attesa di giudizio (ben oltre il 30% di media) supera di gran lunga le percentuali degli altri paesi europei (22 %).

Totalmente insensato e rispondente alle medesime logiche, l’idea di poter operare una pan-penalizzazione, a fronte di una sempre più diffusa cultura volta alla realizzazione di un diritto penale ricondotto al minimo ed alla differenziazione delle forme di contrasto della devianza e dell’illecito.

2. La riforma dell’istituto del giudizio abbreviato con riferimento ai reati più gravi (ivi compreso l’omicidio) risponde anch’essa ad una intenzione puramente propagandistica, fondata sulla ignoranza del dato che i più gravi fatti di omicidio vengono comunque puniti, anche in caso di accesso al rito speciale, con l’ergastolo (attraverso il meccanismo previsto dalla legge della sola esclusione dell’isolamento diurno), mentre una indiscriminata soppressione del rito abbreviato per i reati di omicidio imporrebbe un impegno delle Corti d’Assise non immaginabile, tempi di celebrazione dei processi lunghissimi con costi economici e sociali  altissimi. Analoghe conseguenze avrebbe l’impegno dei Tribunali con riferimento ai reati di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p.

Altrettanto pericolosa e demagogica la proposta di riforma dell’istituto della legittima difesa, operato attraverso la formulazione di una presunzione assoluta di proporzionalità della reazione violenta nei casi di violazione di domicilio. Una inaccettabile “licenza di uccidere” che dovrebbe peraltro essere realizzata al fine evitare l’intervento del Giudice ed il controllo da parte della stessa autorità giudiziaria.

Totalmente inaccettabile la proposta di “rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità” dei minori e  di modificare “il trattamento minorile per il cd ‘giovane adulto’ infra-venticinquenne” e tutte le proposte di aumento delle pene relativamente a determinati reati, in considerazione del fatto che le pene previste ad esempio per i “reati sessuali” sono già severissime, inidonee alla prevenzione di simili fenomeni, per i quali, al contrario, risultano efficaci ben altri interventi di tipo sociale, scolastico,  informativo e preventivo dei quali non vi è traccia alcuna nel programma.

3. Altrettanto irrazionale e contrario ai più volte richiamati dati statistici ed esperienziali, l’intento abrogativo di tutte le riforme penitenziarie volte ad introdurre (1975) e ad incrementare (1986) l’utilizzo delle misure alternative alla detenzione in carcere (che sono modi alternativi di esecuzione delle “pene”), in base all’erroneo presupposto che “più carcere” significhi “più sicurezza”. Mentre resta provato il contrario e che cioè una cieca, inutile e costosa “carcerizzazione” implica un aumento vistoso della recidiva ed una conseguente riduzione della sicurezza per tutti i cittadini.

Occorre rilevare in proposito che lo stesso intento, apparentemente positivo, di valorizzare il lavoro in carcere come “forma principale di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata”, nega un evidente postulato razionale della risocializzazione attuata attraverso un progressivo recupero della libertà, secondo il quale “non si può insegnare a nuotare a qualcuno restando fuori dall’acqua”. Il lavoro all’interno del carcere resta un importante strumento di riabilitazione (preso in esame dalla stessa riforma “Orlando”) solo se ben attuato e se accompagnato poi dalla fruizione di pene alternative fuori dal carcere.

La barbara prospettiva “carcerocentrica” che tutto questo al contrario presume e il dichiarato intento di operare una “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” e di “dare attuazione ad un piano di edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture” si colloca pertanto all’interno di una filosofia della pena del tutto antiquata, ed in sé contraria allo stesso postulato costituzionale (art. 27 comma 3 Cost.).

Lo stesso principio della “certezza della pena” che si pone quale garanzia per lo stesso condannato viene definitivamente declinata all’interno di una visione repressiva e del tutto antistorica di radicale rinuncia a tutti gli strumenti più moderni e razionali prodotti dalla ricerca delle scienze sociali volti ad un impiego delle risorse economiche pubbliche in modo efficiente ed efficace, rispondente di fatto alle reali aspettative dell’opinione pubblica di contrasto alla criminalità.  

Ulteriormente improvvido ed evidentemente segnato da una colpevole ignoranza del sistema, l’intento di rivedere le linee guida sul 41-bis al fine di “ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del “carcere duro” …”, immaginando di poter intensificare ed inasprire un regime che già si pone come una forma inaccettabile di “tortura di Stato” contraria a tutti i principi di umanità e di dignità della persona (art. 3 CEDU, artt. 3, 27 Cost.).

In tal senso occorre esprimere altrettanta preoccupazione in ordine alla attuazione di politiche sulla immigrazione con specifico riferimento alla “individuazione di sedi di permanenza temporanea finalizzate al rimpatrio”, considerato che il numero straordinario delle persone destinate a tali “centri” (“circa 500 mila”) determinerà (al di là del proclamato intento di garanzia della “tutela dei diritti umani”) evidenti problemi di violazione dei più elementari diritti della persona inevitabilmente connessi alla concentrazione di decine di migliaia di persone all’interno di singole strutture regionali.

4. In alcun modo accettabile la proposta programmatica di elaborazione di una “severa ed incisiva legislazione anticorruzione” fondata ancora una volta anziché sulla riforma delle amministrazioni, sulla semplificazione e sulla efficientizzazione dei controlli amministrativi preventivi, sulla pura repressione penale. È oramai sperimentalmente provato come il programmato “aumento delle pene” non sortisca alcun effetto sui singoli fenomeni criminali. Si consideri peraltro come nell’ambito dei reati contro la P.A. si sono già operate reiterate riforme volte all’inasprimento delle pene, giunte oramai, sia sotto il profilo sanzionatorio che quello conseguente della prescrizione a livelli altissimi ed oggettivamente privi di proporzione. Gli ulteriori rimedi previsti (preclusione de “l’accesso a riti premiali”; “DASPO per corrotti e corruttori”) al di là dell’evidente valore propagandistico, anziché aggredire in radice il fenomeno che si vorrebbe contrastare, non possiedono alcun effettivo valore dissuasivo.

Misure quali quelle dell’utilizzo dell’“agente provocatore” o dell’“agente sotto copertura” ed il ricorso ad un potenziamento delle tutele del “wistleblower” (per nessuno dei quali si definisce ulteriormente il criterio di realizzazione e di attuazione operativa) costituiscono pericolosissimi strumenti che anziché svelare il crimine ne presuppongono l’induzione e la realizzazione, ovvero introducono all’interno delle amministrazioni scenari di reciproco sospetto e di contaminazione totalmente improduttivi di risultati e disgregativi dell’intero tessuto sociale e relazionale di riferimento.

Impensabile la realizzazione di interventi legislativi “in materia di intercettazioni” volti al fine di “potenziarne l’utilizzo soprattutto per i reati di corruzione”, tenuto conto di come la legislazione in materia si sia già di recente spinta oltre ogni accettabile limite di invasività dello strumento, consentendo un superamento di quelli che erano i criteri di autorizzazione delle intercettazioni in materia e la utilizzazione di incontrollabili sistemi invasivi e distruttivi della privacy (quali i “captatori informatici” o “troyan horse”) proprio in materia di reati contro la P.A.

5. Infine, anche le parti programmatiche relative alla riforma del CSM (impropriamente denominato “organo di autogoverno della magistratura”, invece che “governo autonomo”) ai rapporti fra politica e magistratura, alla geografia giudiziaria, ed al “ripristino della piena funzionalità della giustizia” che sono state poste dall’avvocatura penale al centro della propria azione associativa, vengono prospettate con una tale genericità e approssimazione da non consentire neppure una valutazione positiva, potendo trovare le problematiche indicate soluzioni sostanzialmente difformi o addirittura del tutto contrarie rispetto alle soluzioni elaborate e prospettate dall’Unione.

E così, benché nel programma elettorale forze politiche contraenti si facesse esplicito riferimento alla separazione delle carriere, tra magistrati requirenti e giudicanti, il tema della terzietà del giudice è stato totalmente abbandonato, così come non è stata proposta alcuna riforma che consenta di valorizzare il dibattimento come momento centrale del procedimento e di garantire l’effettiva parità delle parti.

Di converso, sia pure in termini generici, ma ugualmente preoccupanti, si è immaginato di voler incidere ancora sull’istituto della prescrizione, rendendo così il processo infinitamente lungo, dimenticando che indagati, persone offese, e la stessa società hanno diritto ad un processo che abbia durata ragionevole, in conformità ai principi costituzionali. Il contratto, sul punto, trascura ogni elemento statistico, dal quale risulta che il problema della prescrizione è determinato soprattutto da mancanza di organizzazione e di risorse, e dalla irragionevole durata delle indagini, il che finisce anche con lo snaturare il processo a tendenza accusatoria.

I contenuti relativi al processo ed alla giustizia penale genericamente previsti dal Contratto sono tutti segnati da una cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti, nei quali si cerca l’equilibrio e la differenziazione dell’azione di contrasto ai fenomeni criminali, nella consapevolezza che la sanzione penale non possiede da sola alcun effetto deterrente e deve essere invece non solo proporzionata, ma sempre accompagnata da strumenti differenti che concorrano possibilmente ad eliminare in radice le cause della devianza dell’illecito.

Al contrario, collocandosi fuori da una corretta moderna e condivisa impostazione, le ipotesi di riforma, nel loro complesso, comportano una ulteriore e deleteria deformazione del processo penale, trasformato da dispositivo liberale e garantito di accertamento delle responsabilità del singolo, in uno strumento di repressione e di contrasto dei fenomeni criminosi.

L’approccio demagogico costituisce l’esito di un’azione propagandistica (che UCPI denuncia da tempo) amplificata da una non sempre responsabile diffusione mediatica e che ora vede rinchiudere la prospettata azione di governo all’interno di un “vincolo cieco” di visioni autoritarie e di azioni repressive, del tutto privo di prospettive democratiche e di respiro aperto ai valori cardine della nostra Costituzione. Un approccio ideologico ed un programma che aprono inquietanti scenari di involuzione, e che l’avvocatura si impegna sin da ora a contrastare, con tutti i mezzi e con ogni forma di azione politica e associativa, in difesa delle garanzie e delle libertà di tutti i cittadini e dei valori costituzionali e convenzionali del giusto processo (art. 111 Cost.).

La Giunta

Roma, 18 maggio 2018»

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