Gli auguri del Direttivo della Camera Penale

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Care Colleghe, Cari Colleghi,

 

quello che ci siamo appena lasciati alle spalle è stato un anno assai complesso, nel quale l’azione riformatrice del legislatore e i nuovi scenari disegnati dal diritto giurisprudenziale hanno introdotto novità di assoluto rilievo nel sistema penale e nella sua quotidiana amministrazione. Novità con le quali i penalisti associati sono oggi chiamati a misurarsi in un contesto attraversato da tensioni politiche, culturali e sociali che in gran parte continuano a tradire una visione autoritaria della giustizia e del processo penale.

L’idea di inaugurare una stagione di riforme in senso liberale, rilanciata con forza da Francesco Petrelli nel suo discorso di insediamento alla guida dell’Unione delle Camere penali italiane in occasione del recente Congresso di Firenze, deve fare i conti con una realtà nella quale persistono diffuse sacche di resistenza ad un ripensamento autentico dei rapporti tra autorità e libertà. Una malintesa accezione della prevenzione generale e della difesa sociale continua a fomentare istanze securitarie di marca repressiva, sovente generate da eclatanti fatti di cronaca o strumentalmente evocate per sottolineare la recrudescenza di odiosi fenomeni criminali. Con bizzarra inversione logica, non è più la regola a governare il caso, ma è il caso a creare la regola, per di più pretendendo di adattarla a sé in un confuso milieu nel quale ‘mettere ordine’ e ‘fare giustizia’ rappresentano gli imperativi, troppo spesso elettoralmente vincenti, di programmi demagogici ispirati alla ‘legalità’ e alla ‘sicurezza’.

Iniziative legislative del tutto estemporanee, tra l’altro spesso frutto di una discutibile decretazione d’urgenza (dal d.l. in materia di rave party, passando per gli inasprimenti sanzionatori nei confronti degli ‘scafisti’, sino al recente d.l. “Caivano”, significativamente intitolato «Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà rieducativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale»), convalidano l’idea di un uso improprio delle categorie del diritto e del processo penale, anche perché intriso di venature emotive che malcelano la ricerca di un facile consenso dietro l’apparenza, politicamente ineccepibile, di maggiore intransigenza e severità sanzionatoria.

D’altronde, l’impiego in chiave simbolica del diritto e del processo penale, coltivato con aspettative di rassicurazione e stabilizzazione sociale volte a trasmettere ai più l’illusione di avere messo in qualche modo la situazione sotto controllo, rappresenta la diretta ricaduta di quella spinta populista che è stata – e continua ad essere – una costante delle più recenti esperienze di politica legislativa e giudiziaria. Si tratta di una delle principali patologie dell’intera materia penale, tanto per le sue conseguenze sulle scelte legislative e sulle soluzioni giurisprudenziali (c’è un populismo del legislatore, ma c’è anche un populismo del giudice), quanto per la creazione e la progressiva diffusione di una idea distorta del processo penale – e in definitiva del ruolo stesso del difensore – all’interno della collettività.

Accanto al processo dei codici guadagna un crescente protagonismo quello dei media, insofferente rispetto ai ‘costosi’ e ‘pletorici’ formalismi del primo e, quindi, ben più appetibile anche perché alla facile portata di tutti. Un processo immediato nei tempi della sua celebrazione e della sua stessa definizione, nel quale l’accusa diventa sentenza cavalcando le istanze di punizione più irrazionali di un’opinione pubblica che non vuole soltanto essere informata, ma che ormai pretende anche di dire la sua. Finendo così inevitabilmente con il condizionare pure chi dovrà decidere giudicando nell’ambito del ‘vero’ e ‘solo’ processo, ossia quel giudice la cui necessaria verginità cognitiva è peraltro ampiamente compromessa dalla diffusione indebita di atti non ancora nella disponibilità degli stessi difensori. Con tutte le ovvie conseguenze che questo vero e proprio voyeurismo mediatico-giudiziario comporta sul piano del rispetto di basilari principi di civiltà giuridica, come la presunzione di non colpevolezza, la centralità del dibattimento e, più in generale, l’idea di un diritto penale come scienza e cultura del limite.

La gravità di queste disfunzioni deve essere posta e rilanciata con assoluta fermezza al centro di un più ampio dibattito che punti sul serio a rifondare l’assetto della giustizia penale, mirando anche – ma non solo – a potenziare l’ufficio del giudice, in modo da restituirgli quella autorevolezza che trova la propria cifra essenziale nella imparzialità e nell’assenza di condizionamenti provenienti dall’esterno e dall’interno della magistratura.

Eppure, sotto altro ma connesso versante, persino gli ultimi Governi politici dichiaratisi programmaticamente favorevoli ad una generale riforma in senso liberale del sistema penale hanno dovuto fare i conti con il retroterra culturale di marca giustizialista di talune delle loro componenti più ideologicamente connotate, ma anche con quella parte della magistratura contraria ad una profonda e condivisa azione di riforma, il cui perdurante massiccio insediamento all’interno del Ministero della Giustizia finisce con il far prevalere soluzioni di retroguardia, ovvero di pura conservazione dell’attuale modello ordinamentale. Il noto affaire Palamara, d’altronde, testimonia nel modo più inequivocabile e desolante la refrattarietà di una parte non certo minoritaria della magistratura associata ad immaginare un credibile percorso di autoriforma, ripensando il proprio ruolo fuori e dentro il processo.

Peraltro, temi cruciali delle politiche di riforma in senso liberale del diritto e del processo penale, come la separazione delle carriere, le intercettazioni e la custodia cautelare, non sono stati ancora seriamente affrontati dal legislatore con il chiaro intento di risolvere i problemi, al di là di talune rassicuranti e ben intenzionate proclamazioni di principio degli ultimi Ministri della Giustizia.

La sensazione trasmessa dai più recenti movimenti legislativi è semmai quella di un riformismo ad ogni costo ma privo di direzionalità, rivelatosi spesso incapace di un’autentica selezione del rilevante e prevalentemente sbilanciato in senso efficientista.

L’urgente necessità, da più parti condivisa, di allestire una ‘controriforma’ della riforma Cartabia costituisce la più fedele cartina al tornasole della generale insoddisfazione cagionata da una iniziativa legislativa che, pur avendo condivisibilmente mirato a ridurre il numero dei procedimenti, ad esempio contraendo la platea dei reati per i quali opera il regime della procedibilità di ufficio, introducendo una nuova (ma molto discutibile) formula prognostica per l’esercizio dell’azione penale ed il rinvio a giudizio, e scommettendo sui moduli della giustizia riparativa, ha comunque fortemente ridimensionato i diritti di difesa. Basti pensare, tra le tante altre cose, alla tendenziale cartolarizzazione del giudizio di impugnazione, all’introduzione di un nuovo regime delle notificazioni che onera il difensore di inediti incombenti, nonché all’incremento delle ipotesi di decadenza o di inammissibilità legate ad irregolarità nei depositi telematici ovvero a inosservanze puramente formali, come quelle previste nei giudizi di impugnazione.

Sullo sfondo campeggia l’amara presa d’atto che la discussione – e, più in generale, la presenza – del difensore all’interno del processo sia vista come un fastidioso orpello da rimuovere affinché la macchina della giustizia penale possa offrire prestazioni finalmente conformi alla diffusa aspettativa sociale di riduzione del carico pendente e di velocizzazione di un rito che si vorrebbe privo di antistoriche incrostazioni garantiste.

Pseudo-valori come la celerità, l’efficienza e l’aziendalizzazione del sistema-giustizia hanno ormai preso il sopravvento su quel nucleo identitario di principi che non possono non continuare a contrassegnare il rito criminale, costituendone l’essenziale – ed invero non negoziabile – base di legittimazione teorica.

Ad aggravare il quadro milita poi – e si tratta di una degenerazione rispetto alla quale noi operatori del diritto penale del sud siamo chiamati ad una ferma azione di resistenza – la dilagante realtà dei binari multipli, che segnano divaricazioni talvolta odiose e irragionevoli tra i moduli di accertamento della responsabilità.

Non si allude soltanto al volto cattivo di un sistema che trova espressione primaria nell’impiego di un lessico ‘militare’ lontanissimo dalla prospettiva di un imputato da giudicare, ed incline piuttosto ad esaltare l’idea di un nemico attorno al quale fare terra bruciata, mediante indagini che diventano ‘operazioni’, sovente seguite da pompose conferenze-stampa, processi collettivi che si fanno maxi-strumenti di lotta ai numeri e aule di udienza che divengono bunker, quasi a voler esaltare – con una pericolosissima suggestione para-culturale – l’idea del bene assediato dal male.

Ci si riferisce anche ad una legislazione penale sempre più differenziata e multicentrica, nella quale si costruiscono tante categorie quanti sono i casi da affrontare, ed in cui si registra la presenza crescente di corpi normativi autonomi che non rispondono a logiche di eccezione, ma che semmai puntano a normalizzare un qualche complesso più o meno organizzato di eccezioni.

L’imponente stratificazione legislativa registrata in molti delicati campi di materia (dai percorsi di contrasto alle mafie – ‘vecchie’, ‘nuove’ o ‘delocalizzate’ –, sino alla poliedrica voracità delle tecniche di aggressione dei patrimoni di sospetta formazione illecita) restituisce l’idea di un assetto disciplinare che ha ormai smarrito quel codice identitario necessario a farne un ‘sistema’.

In uno scenario reso ancora più complesso ed incerto dalla grande sfida tecnologica – la progressiva messa a sistema del processo penale telematico e l’intelligenza artificiale ne costituiscono la dimostrazione più attuale ed eclatante – l’augurio per noi tutti è che il 2024 possa davvero essere l’anno delle auspicate e non più differibili riforme, ma anche del pieno recupero della nostra identità. Passaggio, quest’ultimo, indispensabile affinché l’Unione e le Camere penali territoriali possano divenire comunità autenticamente ‘politiche’. Interlocutori necessari e autorevoli di un dialogo pubblico che troppo spesso in questi ultimi anni le ha marginalizzate, privilegiando suggestioni e retoriche giustizialiste alle controintuitive – e talvolta persino impopolari – riforme liberali.

L’impegno associativo della Camera penale “G. Sardiello” si muove esattamente in questa direzione, nella consapevolezza che la grande ricchezza di idee che nasce dall’autorevole esperienza professionale dell’avvocatura penalistica dell’intero distretto di Reggio Calabria dovrà costituire una risorsa irrinunciabile nel dibattito nazionale sul presente e sul prossimo futuro della giustizia penale.

Buon 2024!!

Reggio Calabria 31 dicembre 2023

Il segretario

Ettore Squillaci

Il presidente

Pasquale Foti


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