UN’ALTRA PRECLUSIONE ASSOLUTA VIENE MENO: INCOSTITUZIONALE IL DIVIETO DI CONCESSIONE DELLA DETENZIONE DOMICILIARE AGLI ULTRASETTANTENNI RECIDIVI

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Corte Costituzionale, sentenza n. 56/2021 – Udienza Pubblica 9.3.2021, depositata il 31.3.2021

Detenzione domiciliare per ultrasettantenni: dichiarata incostituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 co. 3 Cost., la preclusione per la recidiva.

Sommario: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. – 2. La decisione: ratiodella norma e peculiarità della preclusione. – 3. Irragionevole ignorare che il tempo può cambiare le persone. – 4. Considerazioni conclusive.

 

  1. Il caso.

C’è una scena del docufilm “Il viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri” nella quale uno dei ragazzi detenuti nell’istituto minorile di Nisida si rivolge al giudice Giuliano Amato, in visita, con un perentorio: “Ma la Corte Costituzionale ha fatto delle sentenze sulla recidiva, sì o no?” La scena scorre veloce e non c’è il tempo per ascoltare la risposta, ma certamente il vicepresidente della Corte avrà rassicurato quel giovane spavaldo (probabilmente toccato dal problema recidiva nella sua personale esperienza): certo che la Corte si occupa della recidiva e, quando deve, la riconsegna ad un ruolo consono ai principi costituzionali, correggendo le storture di quell’improvvido golpe rigoristico che fu la Legge 251/2005 (c.d. Ex Cirielli).

Ormai non si contano più gli interventi della Corte di potatura dei rami storti innestati da quell’intervento del legislatore su di un istituto di lungo corso che, nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, pareva decisamente aver abbandonato l’alveo di provenienza (il diritto penale “d’autore”), per approdare ad una dimensione oggettivizzante e compatibile con la discrezionalità applicativa del giudice: non più lo stigma irrimediabile collegato ai precedenti penali dell’imputato ma la valutazione di maggior riprovevolezza di un comportamento in quanto espressione di aumentata pericolosità hic et nunc.

È noto che la Legge 251/2005 aveva segnato una inversione di rotta, portando un generalizzato irrigidimento risoltosi in un vero e proprio regime differenziato per i recidivi: non solo in sede di irrogazione della pena da parte del giudice della cognizione, con una serie di automatismi sanzionatori fondati su presunzioni assolute (e corrispondente compressione, o addirittura esclusione degli spazi di discrezionalità del giudice), ma anche attraverso conseguenze sanzionatorie indirette in ambiti che spaziano dal tempo necessario a prescrivere al calcolo della pena in caso di continuazione tra reati, per sconfinare nella fase dell’esecuzione della pena.

Ed è proprio in quest’ultimo ambito che si colloca il recente intervento della Corte, con l’ennesima sforbiciata dopo le pronunce che negli ultimi anni hanno riguardato principalmente la fase della cognizione (si pensi alla serie di sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale del divieto di bilanciamento della recidiva qualificata ex art. 99 comma IV c.p. con circostanze attenuanti[1]): la sentenza n. 56/2021, depositata il 31 marzo 2021, colpisce una delle scorie residue di un regime differenziato che non ha retto l’urto con i principi di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena.

Il divieto di accesso alla detenzione domiciliare di cui al comma 01 dell’art. 47 ter L. 354/75 – quella prevista per i soggetti che abbiano compiuto i settant’anni di età – riguarda, tra l’altro, chi sia stato condannato “con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale”. Era questo il caso di un detenuto giunto all’attenzione del magistrato di sorveglianza di Milano (l’ordinanza di rimessione è già stata commentata qui). La persona era detenuta in esecuzione di un consistente cumulo di pene (quattordici anni e sette mesi di reclusione) per antichi reati fallimentari e tributari e aveva compiuto settantotto anni. Tuttavia il suo stato di salute era discreto e non integrava alcuno dei casi rilevanti ai fini della diversa specie di detenzione domiciliare prevista dal comma 1 dell’art. 47 ter O.P.: non era parzialmente inabile (lettera d) dell’art. 47 ter co. 1, né in “gravi condizioni di salute” ai sensi della lettera c) della medesima disposizione. Lo sbarramento collegato alla presenza, nel certificato penale del detenuto, di condanne con applicazione della recidiva, precludeva l’accesso alla misura alternativa prevista dalla legge, in via generale ed a prescindere dall’entità della pena espianda, per i soggetti anziani. Di qui la denuncia, da parte del magistrato di sorveglianza di Milano, di un possibile contrasto con i principi di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3.

 

  1. La decisione: ratio della norma e peculiarità della preclusione.

Con una sentenza sintetica e lineare la Corte accoglie la questione dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 ter co. 01 O.P. limitatamente alle parole «ne sia mai stato condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale».

Evidenziata la natura più favorevole della disposizione censurata rispetto a quella prevista dal comma immediatamente successivo dell’art. 47 ter (per l’assenza di presupposti collegati alle condizioni di salute), la Corte dà avvio alla motivazione della sentenza sottolineando la duplice ratio della misura alternativa prevista dal comma 01: da un lato il legislatore presume la diminuzione della pericolosità sociale del condannato che abbia raggiunto i settant’anni e la possibilità del suo contenimento con un obbligo di permanenza domiciliare, supportato da opportune prescrizioni e controlli; dall’altro (e forse soprattutto, sottolinea la Corte), vi è la presunzione che il carico di sofferenza associato alla detenzione cresca con l’avanzare dell’età: la persona anziana necessità di sempre maggiore cura e assistenza personalizzate, dunque questa detenzione domiciliare pare ispirata al principio di umanità della pena di cui all’art. 27, terzo comma Cost.. La medesima logica appare sottesa all’analoga disposizione dettata in materia di misure cautelari dall’art. 275 comma 4, secondo periodo, c.p.p.

Come accade per la custodia cautelare, che può essere applicata all’ultrasettantenne nel caso in cui sussistano «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza», anche in fase esecutiva esistono eccezioni alla possibilità generale dell’espiazione della pena al domicilio: la norma preclude la misura alternativa in tre casi: presenza di declaratoria di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, condanna per determinati delitti espressamente indicati dall’art. 51, comma 3bis c.p.p. o dall’art. 4bis O.P. e, appunto, presenza nel passato della persona di condanna con l’aggravante della recidiva di cui all’art. 99 c.p.; in tali evenienze alla presunzione di attenuata pericolosità del condannato anziano si contrappone la contro-presunzione assoluta di persistente pericolosità del condannato, oggetto, quanto al caso della recidiva, dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal remittente.

La Corte non manca di rilevare, innanzitutto, come costituisca un unicum, nell’intero ordinamento penitenziario, la derivazione di conseguenze preclusive dell’accesso ad una misura alternativa dalla recidiva in una qualunque delle sue declinazioni (dunque anche semplice): altre ipotesi di condizioni più gravose per l’accesso ai benefici penitenziari o di preclusioni sono collegate alla recidiva reiterata prevista dal quarto comma dell’art. 99 c.p.. Deve prendersi atto, peraltro, dell’intervenuta abrogazione ad opera del legislatore (con D.L. 78/2013 convertito in L. 94/2013) di alcune delle disposizioni rigoristiche introdotte dalla legge “Ex-Cirielli” riguardanti la recidiva reiterata[2].

 

  1. Irragionevole ignorare che il tempo può cambiare le persone.

Nel prendere in esame l’obiezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato alla quaestio, la Corte prosegue osservando come non convinca l’argomento per il quale la preclusione alla misura alternativa sarebbe da ricollegarsi, in ultima analisi, non ad una presunzione assoluta e astratta di pericolosità, ma ad una valutazione individualizzata del soggetto compiuta dal giudice della cognizione, che ha applicato la recidiva: valutazione che presuppone sia un giudizio di maggior gravità del fatto, commesso da chi decide di commettere nuovamente un reato dopo essere stato condannato, che di maggiore pericolosità del condannato, il quale ha dimostrato una accentuata propensione a violare la legge penale. Per la Corte, che entra così nel cuore della questione, il problema è che la valutazione individualizzata sul surplus di pericolosità soggettiva non è né attuale né specifica quanto all’ipotesi di un’espiazione della pena in forma domiciliare.

Quanto al difetto di attualità, la Corte rileva che, in ipotesi, dato che la disposizione censurata non precisa che la recidiva debba essere stata ritenuta con la sentenza di condanna in esecuzione, la preclusione potrebbe derivare da una recidiva (anche semplice, come si è detto) applicata in un passato molto remoto, laddove magari il giudice che ha pronunciato la condanna in esecuzione, invece, ha escluso la recidiva proprio per la risalenza nel tempo dei precedenti penali, considerati irrilevanti ai fini del giudizio di accentuata pericolosità e colpevolezza che condiziona l’applicabilità dell’aggravante.

La Corte recepisce, seppure in via sintetica, gli argomenti del remittente, che aveva prospettato come, da un lato, la recidiva possa essere retaggio di un passato anche molto lontano, sia dalla sentenza, che, a fortiori, dalla valutazione della decisione sull’istanza presentata in fase esecutiva. Inoltre, la recidiva può essere stata ritenuta in relazione a precedenti reati di scarsa gravità, legati a contingenze del caso concreto e, dunque, non rappresentativi di una più marcata colpevolezza o pericolosità del condannato. Si prospetta, così, proprio uno di quei casi evocati dalla giurisprudenza costituzionale come indicativi di accadimenti reali contrari ad una presunzione assoluta fondata su di una generalizzazione irragionevole: vi possono essere «condannati con recidiva niente affatto pericolosi e condannati senza recidiva molto pericolosi, in entrambi i casi per ragioni imponderabili».

Il remittente, peraltro, aveva suggerito che un condannato di più di settant’anni di età è ragionevolmente più lontano di un giovane da contesti criminali e occasioni di delitto. Su questo argomento la Corte tace, forse perché eccessivamente generalizzante e risultando in qualche misura assorbito dall’effetto della declaratoria di incostituzionalità, che è quello di restituire al giudice di sorveglianza la possibilità di valutare nel merito il percorso di quellapersona, senza preclusioni derivanti dal suo passato.

Rispetto alla a-specificità, si osserva che anche se fosse stato il giudice della condanna in esecuzione ad applicare la recidiva, lo avrebbe fatto unicamente ai fini della determinazione del quantum di pena da infliggere al condannato, rimanendo estranea al suo orizzonte valutativo la modalità concreta di espiazione della pena irrogata. E, com’è ben noto anche a seguito della sentenza n. 32/2020, è ben presente al Giudice delle Leggi la radicale e sostanziale differenza tra espiare la pena dentro o fuori dal carcere.

Laddove il giudice di sorveglianza sia chiamato a decidere sulla possibilità di un’espiazione extra-moenia, la sua valutazione considera elementi estranei al giudizio del giudice della cognizione, primo fra tutti il cambiamento avvenuto, con il tempo, nella persona; oltre all’eventuale percorso rieducativo già intrapreso nel lungo periodo che separa, di norma, il tempo di commissione del reato dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, nonché l’effetto di un periodo eventualmente trascorso in carcere. Citando la sentenza n. 183/2011, si rileva che «[m]entre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali», radicale discontinuità di cui il giudice di sorveglianza deve essere in condizione di tenere conto nel considerare se si debba mantenere in carcere una persona in età avanzata, mentre la valutazione del giudice della cognizione  non poté investire, necessariamente, questo aspetto.

È, pertanto, intrinsecamente irragionevole, secondo la Corte, sottrarre al giudice di sorveglianza la possibilità di valutare se e quanto il tempo trascorso abbia cambiato la persona, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena ed in conformità all’ormai corposa giurisprudenza della Corte stessa sulla contrarietà agli artt. 3 e 27 comma 3 Cost. delle preclusioni assolute (sono citate le sentenze n. 253/2019, n. 149/2018, n. 291/2010 e n. 189/2010).

In chiusura la Corte sente il dovere di precisare che la sua conclusione non è smentita dalla recente pronuncia n. 50/2020, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47 ter, comma 1 bis L. 354/74 sollevate sempre in riferimento agli artt. 3, primo comma e 27, primo e terzo comma, della Costituzione. Il dubbio che potesse considerarsi irragionevole la preclusione all’accesso alla detenzione domiciliare “non qualificata” (per le pene detentive residue non superiori a due anni) per i condannati per reati ex art. 4 bis O.P. viene superato, in quella sentenza, con l’osservazione che la preclusione trova fondamento in un giudizio che la stessa magistratura di sorveglianza formula contestualmente all’esame dell’istanza di detenzione domiciliare: quello di non meritevolezza, da parte del condannato, della più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale: vi sarebbe, in sostanza, una valutazione attuale e contestualizzata della persona che, per scelta riconducibile alla discrezionalità del legislatore, che presume particolarmente pericoloso il recidivo, si vedrebbe ragionevolmente precluso l’accesso all’espiazione in forma domiciliare nello stesso momento in cui viene giudicata immeritevole di un beneficio più ampio.

Il richiamo alla sentenza n. 50/2021 consente di inserire in queste brevi note una considerazione che è sorta spontanea alla lettura di quella pronuncia, molto attesa da chi pratica il diritto penitenziario e le aule dei tribunali di sorveglianza per la frequenza con cui ricorre l’applicazione della preclusione connessa all’art. 4 bis nella pratica: non è detto che la mancata concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale derivi da un giudizio di non meritevolezza della misura: l’art. 47 ter co. 1 bis parla di mancata ricorrenza dei presupposti per l’affidamento in prova, il ché può concretarsi anche nell’indisponibilità, da parte del condannato, di un lavoro o altra attività risocializzante. Circostanza che si verifica specialmente con riferimento ai detenuti stranieri non in possesso di valido titolo di soggiorno, che difficilmente sono in grado di ottenere una disponibilità lavorativa prima della concessione della misura alternativa (e proprio in vista dell’ottenimento della medesima), salvi i casi di presenza di una valida e attrezzata rete di enti per il reinserimento dei detenuti sul territorio, in grado di superare i problemi di natura burocratica legati ai contratti di lavoro (o borse-lavoro). Dunque capita di frequente che il giudice di sorveglianza non conceda l’affidamento in prova a un detenuto meritevole, che ha la disponibilità di un domicilio e rispetto al quale non sussiste il pericolo di commissione di altri reati ma che non ha un lavoro o accesso ad altre attività o situazioni (es. volontariato, contesto familiare) che contribuiscano alla rieducazione e che nella prassi sono richieste per l’accesso alla più ampia misura; in quel caso rimane purtroppo preclusa, a seguito della sentenza n. 50/2021, anche quella più contenitiva della detenzione domiciliare.

  1. Considerazioni conclusive.

La decisione in commento non sorprende, inserendosi nella nota scia di pronunce demolitorie del sistema delle preclusioni assolute in materia di accesso ai benefici penitenziari e, più in generale, dell’utilizzo di automatismi preclusivi, quando irrazionali. Del resto, contestualmente al suo deposito, il 31 marzo 2021, la Corte ha pubblicato la sentenza n. 55/2021, che ha dichiarato a l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.. Pronuncia nella quale è stato ribadito il generale principio per il quale «deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato dall’art. 69 cod. pen., sono sì costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, ma sempre che non «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenze n. 205 del 2017 e n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo in alcun caso giungere «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenze n. 73 del 2020 e n. 251 del 2012)».

Quindici giorni dopo si è appreso da un comunicato stampa dell’ordinanza, in fase di redazione, con la quale la Corte ha deciso di rinviare a maggio 2022 la trattazione della questione di legittimità dell’ergastolo ostativo per dare modo al Parlamento di intervenire sulla disciplina vigente, dichiarandola sin d’ora (parrebbe, stando al comunicato) in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E’ noto che la quaestiodenuncia la illegittimità costituzionale della preclusione assoluta (ancora una volta, un automatismo) all’accesso alla liberazione condizionale per l’ergastolano che non collabori con la giustizia.

Il vento che spira è, dunque, contrario ai rigori irragionevoli ed è evidente, nelle più recenti pronunce della Corte, la centralità attribuita all’Uomo e al suo percorso attraverso il tempo.

Certo, sarà necessaria la lettura dell’ordinanza in materia di ergastolo ostativo per avere contezza del ragionamento della Corte sulla «peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie» e sulla «necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi».

Intanto, rimanendo sull’altro binario, quello dei tanti condannati per reati comuni commessi spesso in un remoto passato, conforta ritrovare nella sentenza n. 56/2021 quel richiamo al principio di umanità delle pene (che nel caso di specie fonda la previsione stessa della speciale misura alternativa) così trascurato dal legislatore anche nel periodo drammatico che stiamo vivendo e che stanno subendo ancor più pesantemente le persone recluse.

* Avvocato del Foro di Brescia

[1] Sentenze nn. 251/2012, 105/2014, 106/2014, 74/2016, 205/2017, 73/2020, 55/2021.

[2] Sopravvivono attualmente la previsione di condizioni più gravose per l’accesso ai permessi premio (art. 30-quater O.P.), pur temperata dalla pronuncia n. 257/2006 (che escluse l’applicabilità della disciplina del 2005 ai condannati che avessero già raggiunto un grado di rieducazione adeguato al permesso premio), nonché il divieto di concedere una seconda volta l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare e la semilibertà (art. 58-quater co. 7bisO.P.), anche questo corretto, nel medesimo senso, dalla sentenza n. 79/2007


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